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15 MIN

Giacomo Cunial: “Racconto la mia passione per il motorsport. Ai rally manca divulgazione dell’aspetto umano delle corse.”

Intervista a tuttotondo con uno dei protagonisti di Service Park. Una storia ricca e piena di esperienza che vale sicuramente la pena raccontare.

Aldilà di qualche identikit rubato dal web, chi è Giacomo Cunial e perché oggi lo stiamo intervistando su Rallyssimo?

Ciao Alex, un piacere trovarci qua. Iniziamo. In realtà io credo che identikit, i “curriculum”, non servano praticamente a niente: le persone hanno una storia e solo quella può raccontare chi sono. Siamo abituati ai social, ai colloqui veloci, alla superficialità, ma le persone vanno incontrate, approfondite, magari andandoci a cena qualche volta, per conoscerle, capirle. E le capisci solo di persona, con il tempo (ndr. io e Giacomo non siamo mai stati a cena ma abbiamo avuto modo di fare due chiacchiere ad una gara).

Visto che me lo chiedi, il mio identikit è quello di un appassionato da sempre di motori e motorsport con una storia sicuramente molto particolare. Una storia anche e soprattutto di pilota, un ex pilota ma tuttora pilota, che ha studiato e oggi prova a comunicare motorsport e rally da una prospettiva che manca assolutamente in questo periodo storico, ovvero quella umanistica. I piloti, le squadre, i progetti delle vetture nascono da uomini, da persone che non vengono abbastanza raccontati soprattutto da una prospettiva diciamo cultural / filosofica. C’è molta tecnica e capisco che in quest’epoca attiri molto, sono il primo ad esserne incuriosito, però c’è un aspetto secondo me fondamentale delle corse, visto che si parla di sport, che è l’aspetto umano. Secondo me, non viene fatto emergere abbastanza dalla narrazione giornalistica.

Al momento sono redattore motorsport di Contrasti, una rivista di sport e cultura appartenente al gruppo editoriale Magog. Faccio anche l’istruttore o coach come si dice oggi per eventi di experience automobilistici, se così si può dire. Resto comunque pilota dentro e fuori (!) e quando mi capita guido, mi metto a disposizione con la mia esperienza. L’idea è di tornare a correre al più presto.

Dal punto di vista rallystico c’è stato l’incontro “virtuale” che ho avuto con Damiano Poltronieri durante il covid, grazie a Pietro Manfrin, che mi ha riportato un po’ nell’ambiente da cui mi ero distaccato molto sinceramente negli anni 2016-2017, per tanti motivi magari che verranno fuori. Mi sono innamorato del progetto Service Park, sono tornato nell’ambiente per parlarne in modo nuovo, contemporaneo e come secondo me nessuno era in grado di fare e faceva fino a due, tre anni fa.

Abbiamo iniziato quattro anni fa a fare questi podcast, la scintilla è nata con le puntate “ Rally che vorrei” che si trovano ancora su Spotify. Sono le puntate in cui io e Damiano abbiamo chiacchierato un po’ anche come se fossimo al bar, cercando di delineare un’analisi critica ma costruttiva delle problematiche dei rally in Italia. Da lì è iniziato tutto: le interviste che facciamo settimanalmente e poi i video che stiamo cercando di fare, budget permettendo, delle gare e dei rally che andiamo a vedere. Tutto con un’ottica di promozione e divulgazione che per me è la parola chiave, più importante per parlare di rally oggi. Per quel che vedo in giro oggi, nel 2024, negli anni di Service Park abbiamo anche fatto un po’ di scuola. Questo mi fa molto piacere, quando ti copiano vuol dire che stai facendo un buon lavoro.

Dicevi che il tuo è un background molto particolare. Approfondiamo?

Il modo in cui sono entrato nel mondo del motorsport – mia grande passione fin da piccolo – è stato molto particolare. Non vengo da una famiglia di piloti né di giornalisti.

Mentre ero al Liceo Classico, stiamo parlando di 2006, 2007, 2008, scrivevo e commentavo un po’ nerd su vari forum online (antesignani dei social) di motorsport, e alcuni giornalisti leggendomi mi notarono e mi fecero delle proposte di collaborazione. Ho capito che la scrittura poteva essere una strada da percorrere. Così ho iniziato a scrivere per delle riviste e blog online, collaborando anche per alcuni pezzi su Nuvolari TV.

Dal punto di vista del pilotaggio la particolarità è stata partecipare e vincere la GT Academy. Non ero il classico figlio d’arte o figlio del padre appassionato che mette il figlio sul kart o su una macchina e vede come va, anzi, è stato quasi il contrario. Mi iscrissi quasi per caso a questa, che all’epoca era sconosciuta, GT Academy e vincendola sono andato a Silverstone a fare l’accademia per piloti. Una storia lunga, ma lì ho visto che poteva esserci qualcosa, potevo avere qualche capacità per fare il pilota. Un’esperienza che mi ha cambiato la vita. Non me l’ha cambiata in termini economici ma in termini di prospettiva, perché se prima non avevo mai nemmeno immaginato di poter diventare un pilota o di poterlo fare, da lì in poi, soprattutto dalla seconda edizione della GT Academy (ndr. per due volte Giacomo ha vinto la GT Academy Italiana), ho potuto ipotizzare di mettermi in gioco e vedere se ne ero capace. Prima di quello io vedevo i piloti davvero come degli eroi irraggiungibili e capaci di chissà che capacità straordinarie di cui io sicuramente non sarei stato in grado.

La cosa che più ho imparato è che per diventare piloti forti non si può prescindere dall’aspetto mentale e dall’aspetto umano. Non è solo una questione di soldi, come ormai siamo abituati a dividere il mondo in chi se lo può permettere e chi no. Certo, la realtà è che anche il nuovo Senna se nasce “povero” al 99% non ce la fa, ma l’aspetto per cui il talento con poche basi finanziarie in qualche modo ce la fa è essenziale nello sport e nella vita. E bisogna trovare i metodi per permettere che ciò accada. Vedi Kimi Antonelli in Formula 1. Una grossa parte della crisi dei rally ma del motorsport in generale sta in questo. Manca la scalata grazie al proprio talento, alla costanza, alla fame, tutte caratteristiche che rendono poi gli sportivi degli eroi. In questo, la GT Academy è stato un progetto di avanguardia pura, una sorta di democratizzazione delle barriere all’ingresso. Ne sono testimone.

Hai fatto parte poi del progetto ACI Team Italia che aveva come obiettivo dichiarato il lancio di un giovane italiano nel WRC. Aldilà del raccontarci l’esperienza, cosa ti è rimasto e cosa ne rimane di quell’idea che, almeno sulla carta, mixava tante nuove idee?

Quanto ad ACI Team Italia, che dire? È stato un percorso breve ma intenso. Venivo dalla GT Academy e “tornato a casa” è iniziato un percorso nei rally con la prima stagione nel trofeo Twingo di zona. Ho vinto tutte le classifiche e questo mi ha portato non solo a praticamente ripagarmi la prima stagione a livello economico ma, comunque, ad emergere e a distinguermi nel panorama italiano. Ho vinto al primo anno un trofeo nazionale e quindi è arrivata la chiamata del team Vieffecorse che era uno degli ultimi storici team che dava una mano a dei talenti emergenti, e al termine della mia prima stagione quello che fino a due anni prima era uno dei team più prestigiosi – e di cui guardavo le gesta con i vari Luca Rossetti, Andrea Dallavilla, Elvis Chentre – è diventato il team che mi ha chiamato per fare il pilota. In due o tre anni c’è stato davvero un cambio di prospettiva importante.

Ho vinto il supercorso federale 2012 che era la selezione dei migliori piloti emergenti, da lì sono entrato nell’orbita dei nomi aiutabili per così dire dalla federazione. Di certo quella di ACI Team Italia resta un’esperienza molto positiva.

Come dici tu era un mix di idee nuove e anche giuste, secondo me, tant’è che si ispirava a quello che era lo Junior WRC dell’epoca, che si chiamava WRC Academy, non a caso.

L’idea era quella giusta, il principio era quello giusto, assolutamente. Fondamentalmente era una selezione di piloti sulla base delle potenzialità tecniche, del talento e delle capacità dimostrate in generale. Il problema all’epoca è stato il classico metodo “ all’italiana ”: era stata fatta una prima lista di piloti che era 5, al massimo 10. Poi chiaramente nell’ambiente, tra figli di, tra quelli con le conoscenze giuste, ecc (…), si è sparsa la voce che Tizio e Caio non erano inclusi nell’ACI Team Italia. Cosa ha fatto la federazione per rispondere al problema? Ha deciso di mettere dentro trenta nomi, anche alcuni davvero non dico impresentabili ma con nessun senso, per non scontentare nessuno.

Classica buona cosa rovinata non dalla federazione di per sé ma dalla cultura italiana, dal sistema italiano, che non deve scontentare nessuno. È un ambiente in cui tutti conoscono tutti quindi non si può fare la rivoluzione – per fare una citazione. Da lì per me sono iniziati i problemi veri, da un punto di vista di carriera, proprio perché da una selezione dei giovani talenti emergenti degli ultimi due anni è diventata un “chiamiamo tutti i giovani che più o meno meno si conoscono per vie traverse” e lì mi è mancato il sostegno economico. Poco dopo ho deciso di smettere.

Dal mio ACI Team Italia sono passati dieci anni, all’epoca eravamo attenzionati dalla federazione e facevamo degli stage a Vallelunga, tra l’altro in pista, neanche per strada o su strade chiuse, per dire come sono cambiate le cose. Questi stage erano anche, devo dire, formativi, in cui io mi distinsi (chiedere per credere), trovai quello che avevo già trovato nella GT Academy, ovvero una formazione finalmente moderna e a 360 gradi del pilota. Non solo da un punto di vista tecnico e di guida, ma anche fisico, psicologico mentale di attitudine, rapporto con la stampa.

Diciamo che sull’ACI Team Italia dell’epoca mi è rimasto poco, perché il fatto che io abbia smesso pochi anni, due anni dopo, significa che comunque all’epoca il progetto non funzionava. Oggi secondo me la federazione non dovrebbe fare di più, ma dovrebbe fare meglio, con il budget che viene speso.

La cosa più importante che manca all’ACI Team Italia, secondo me, è un board fisso e anche magari ben selezionato di competenti e manager, di riferimento, sia interno per i piloti e gli entourage, sia esterno cioè che possa anche essere giudicato nell’operato. Cioè che si possa capire chi sta lavorando come, perché, se sta lavorando bene, se sta lavorando male, se glielo si può dire, se glielo si può far presente, se si può modificare, ecc.

Manca cioè, secondo me, ma è un tema politico che ha ACI in generale, lo spazio di confronto tra chi decide (a livello interno di federazione sportiva e tecnica) e i singoli soggetti, chi ne è coinvolto e magari dice no, questa cosa funziona, questa cosa non funziona, mettiamoci d’accordo per farla funzionare meglio, ecc.

Che altro dire? Una cosa che sostengo da tempo, che il board deve essere fatto e strutturato meglio, ben identificato, in questo board dovrebbero esserci non solo gli esperti di lunga data, ma anche qualche giovane che ha attraversato il rallismo di oggi e sa nel profondo quali sono le problematiche di oggi. Partendo dal presupposto che per essere un pilota professionista bisogna andare forte e questo va sottolineato, altrimenti denunciamo i giovani di essere troppo teneri ma le problematiche di un pilota degli ultimi decenni sono diverse, molto più complesse rispetto a quelle degli anni Ottanta. Economicamente si sta facendo estremamente di più di anni fa, non sempre nella direzione corretta e con l’indipendenza necessaria.

Notizia di questi mesi è il “ritorno” di Lancia nei rally, così che non si possa più dire che per tornare ad essere forti nei rally serve un marchio italiano. Luogo comune o vogliamo crederci davvero?

Viviamo in un mondo di regolatori, di ragionieri, di tecnici che hanno sempre una risposta per tutto e sembra che ti debbano insegnare la vita. Sul ritorno della Lancia io ti rispondo che onestamente la mia prima reazione è stata entusiastica, al di là che fosse una cosa che si vociferava e si chiedeva da tanto tempo. Non ci può che essere entusiasmo – almeno per me – quando vedo una nuova macchina da rally, soprattutto se è con un marchio italiano (sì francese ok sappiamo tutto). Rivedere un marchio come la Lancia, vedere una Lancia Ypsilon in livrea Martini, seppure fake, è stato emozionante. Le corse sono fatte anche di questo, soprattutto di questo, e quindi ti dico, a prescindere la mia reazione è entusiastica.

Ora, scendendo dal mondo dei sogni, bisogna capire di cosa effettivamente si tratterà. Del progetto quel che so è che per ora è un customer racing. Io immagino e mi aspetto un trofeo nazionale e perché no Europeo del marchio Lancia (o Stellantis Motorsport ma credo più dedicato propriamente a Lancia HF) con budget importante dedicato ai premi.

Poi, se la cosa (progetto rally per Stellantis) si rende sostenibile economicamente, e diventa un trampolino per strutturare programmi più importanti tipo Rally 2 e chissà Rally 1, lì diventa una prospettiva factory e lo vedremo magari tra qualche tempo. Ma al di là dei discorsi che molti fanno e che sono assolutamente legittimi, cioè che Lancia non è più Lancia, Gruppo Stellantis è francese, il 1.2 Pure Tech, 3 cilindri, ecc. È tutto vero, ma viviamo oggi in un mondo del marketing e nel mondo dei brand che ahimè purtroppo non hanno un sottotesto di prodotto più profondo. Quindi ci dobbiamo accontentare e ripartire da questo.

Non posso che prendere positivamente il fatto che Lancia torni nei rally. Perché comunque secondo me riaccende un interesse italiano nazionale più di massa nei confronti del rally, questa roba come è stato per Race for Glory il film, cioè tutto ciò che rilancia l’interesse nazionale popolare, o che può farlo in Italia, nei confronti del rally, nei confronti del motorsport, per me va preso positivamente. Poi possiamo fare tutti i discorsi che vogliamo. Io la vedo così.

Non posso che augurare a Lancia e a Lancia Corse HF il meglio. Perché non vedo l’ora di vedere che il progetto cresca, si strutturi e magari chissà che questo non possa anche aiutare a riportare un pilota italiano nel mondiale.

Negli ultimi anni il dibattito sul “rilancio dei rally” è sempre accesissimo, tra cambi regolamentari, nuove tecnologie e comunicazione…qual è la ricetta Cunial?

La ricetta per rilanciare i rally è un tema talmente ampio e vasto che non mi compete, però ci si potrebbe scrivere un trattato – se non una vera e propria lectio magistralis. Molti più esperti di me ci hanno provato negli anni.

Partiamo dal fatto che mi piace l’atteggiamento della FIA che nell’ultimo periodo si sta impegnando a reagire al momento di totale inerzia e crisi rispetto al periodo post WRC 1.6, post WRC Plus, mettiamocele dentro. L’era ibrida non è nata sotto una buona stella, ma l’inerzia arriva da anni di confusione del sistema automobile di serie. Ed è un tema sia per quanto riguarda l’interesse da parte di investitori e di case costruttrici, che partner di qualsiasi genere, sponsor, che per quanto riguarda il pubblico.

Mi piace la copertura che è stata fatta a livello mediatico e gli investimenti che hanno fatto anche con la Rally TV, però la Rally TV è già per rally-addicted, non so come dire.

Non divulga, aiuta ma non abbastanza. Come ti dicevo prima in Italia, soprattutto in Italia ma anche nei rally mondiali, il primo e fondamentale aspetto – che è quello che fa Dirtfish – è quello della divulgazione, del racconto, non della cronaca. E della promozione. Secondo me su quello bisogna lavorare ancora tantissimo anche nel mondiale.

Altro aspetto che emerge dai sondaggi FIA è il fatto che il rally deve mantenere la sua natura, altrimenti non ha senso di esistere (ci sono le corse in circuito o i rally raid, dall’altro lato). E la natura dei rally è composta da due elementi che devono intrinsecarsi. Il primo è la velocità di piloti e mezzi, da esprimere su ogni tracciato stradale, in ogni condizione meteo e di elemento, ovvero asfalto terra e neve. In questo c’è un’epica incredibile, l’epica dei rally, il fatto di andare il più veloce possibile ma su strade normali, che fanno tutti, che si fanno ogni giorno, strade secondarie, in cui si aggiunge il secondo aspetto che è l’endurance. Affrontare tutti gli elementi per un lungo periodo di tempo, ovvero fare chilometri. Più chilometri. C’è bisogno dell’epica dell’endurance, del fatto che per vincere la sfida rallystica bisogna anche essere in grado di reggere un ritmo e una concentrazione per lungo tempo.

Stiamo parlando di uno sport, e l’etica e l’epica sono fondamentali. Se non emergono e se emerge solo il fatto che è una cosa costosa e da folli, in modo sterile, non funziona. È dall’epica e l’etica di chi è coinvolto che emerge poi lo spettacolo.

E qui entra in gioco anche un altro fattore: il motorsport deve intrattenere, dando così il motivo alla gente sia di guardarlo su uno schermo, ma anche e soprattutto di muoversi e andarlo a vedere dal vivo. Per fare questo glielo devi spiegare e raccontare, che è quello anche che noi proviamo a fare con Service Park. Gli devi dare un motivo perché sia interessante a un pubblico nuovo e giovane, soprattutto oggi.

Il rally è anche la prima rappresentazione di alternativa o evasione da una mobilità regolata da smart city, modello verso cui stiamo andando teoricamente… Quindi anche prendere questa prospettiva, di questo “nuovo” concetto dell’automobile che sta cambiando, può essere una chiave di lettura.

Dunque la ricetta per un rilancio dei rally è, sintetizzando, ritornare alle origini e utilizzare bene la narrazione sportiva, giornalistica e di promozione attraverso tutti i mezzi di comunicazione di oggi.

Per concludere, quale augurio fai ai rally per il loro presente e per il loro futuro?

Ai rally italiani auguro di fare pace con il passato e rendersi conto che c’è un presente dignitoso e un futuro da costruire. Auguro di trovare una alchimia di sistema che sia finalmente un ponte generazionale. Secondo me sono molti anni che non viviamo il presente, ma viviamo nel passato complice anche il fatto che in Italia abbiamo vissuto da protagonisti la Golden Age. Quest’ultimo è uno dei motivi, l’ho scoperto vivendolo negli anni in cui ho iniziato io, per cui il rallysmo si trovava già profondamente in crisi dieci anni fa e nessuno sembrava accorgerene.

E’ una delle prime cose che auguro ai rally, perché siamo stanchi del virgolettato “non sono i più i rally di una volta”. Fosse per me eliminerei draconianamente questa espressione, proprio la censurerei, perché non dice niente, non formula un’analisi, non è una critica, al massimo è una critica sterile, ma soprattutto non dà una soluzione.

È l’espressione facile per non sentirsi responsabili di fare qualcosa in prima persona, e questo spirito non mi piace. A questo punto decretiamone definitivamente la morte e facciamo prima no? Tant’è che ne facciamo anche motivo di scherno e di scherzo su Service Park come tante altre espressioni che usiamo in modo ironico (spesso non capite, strano no?).

Quindi l’augurio migliore per i rally in Italia è questo qui, ripartire dalla cultura facendo pace con il passato. Prendere ciò che i rally di una volta offrono di spunto, di ispirazione, consapevoli che la Golden Age è finita da un pezzo.

Il fatto che non si sia mai costruito negli anni un vero ponte generazionale – che è un aspetto fondamentale di cui non si parla mai ma che io voglio sottolineare – è grave.

La responsabilità è di chi comunque con la Golden Age si è costruito una vita di successo professionale e popolarità. Penso al fatto che per quanto si possa chiudere male con una realtà come i rally, dovrebbe comunque esserci lo spirito “sociale” di restituire gratuitamente qualcosa all’ambiente da cui tanto si è ricevuto. Dopo tutto, quelli di oggi non sono altro che i figli della Golden Age.

Ai rally in generale, auguro di prendere come opportunità il cambio di tendenza che si respira ultimamente rispetto alla tanto annunciata transizione green e di trovare un nuovo spazio nella mobilità moderna, fuori dalle ideologie. Trovare una nuova ragion d’essere oggi, più di nicchia, non si tornerà agli anni 80 come popolarità ma un concetto di auto stile WRC anni 2000 o comunque fatte apposta per i rally ci può ancora essere nel prossimo futuro. Vedi quella che è la filosofia di Akio Toyoda, non a caso presidente di Toyota.

L’augurio è che questa linea di principi venga seguita anche da chi di questo sport regola la politica affinché tornino gli investimenti e i costruttori, che è la cosa fondamentale. Almeno io questa cosa, queste due cose sia per l’Italia che per i rally in generale sono cose che mi auguro. E per cui dovremmo essere anche pronti a combattere. Te la dico così.

Foto di copertina: Nicolas Magoni
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