Sandro Munari. Un sole che brillerà sempre sul pianeta del rally
Il Drago di Cavarzere e la rinascita della Fulvia
Va da sé. Ogni disciplina sportiva tiene i propri astri e, nel dar ragione del moto rotatorio della Terra, come il Sole passando da un emisfero ad un altro, ognuno di questi continua a splendere anche quando tramonta dalla volta. Come, cioè, accade quando cala la notte, durante la seconda metà del giorno terreno, che non si veda la grande stella che partorisce il giorno, ma si sa che c’è e non smette d’illuminare.
Nel rally, una di quelle fonti di luce, una delle più brillanti che continuano ad irradiare nell’universo dell’automobilismo sportivo, è il veneto Sandro Munari.
Classe 1940, il Drago di Cavarzere, come venne appellato per le sue doti di conduttore formidabile e per il paesino in provincia di Venezia che gli diede i natali, crebbe alla scuola d’un altro veneto, il rodigino Andrea Cavallari. Primo pilota italiano rally di rilievo, dacché si potesse parlare del rally come d’una disciplina ormai ufficialmente definita, Munari ebbe a servirlo come navigatore verso la metà degli anni ’60.
Durerà appena un anno e sarà l’unico in questo ruolo, ma si tratterà, questa dell’affiancamento ad un calibro del valore di Cavallari, di un’esperienza che, di sicuro, avrà un importante peso, sia nella sua formazione tecnica, sia nel radicamento della motivazione alla professione di pilota in questa particolare specialità.
E‘ il 1965 ad affidare finalmente il volante a Munari, ma bisognerà attendere per vederlo vincere le prime gare di rally come pilota e, comunque, si tratterà di vittorie piene, con la conquista del titolo italiano, sempre in Lancia, nel 1967 e, poi, nel 1969.
Seguirono altri successi in campionati internazionali, come il trionfo nell’Europeo del 1973, poi ancora varie tappe, in particolare quelle di Montecarlo, in cui pareva si sentisse come nell’agio di casa propria, fino alla conquista del titolo mondiale, avvenuto nel 1977.
Le vetture con le quali raggiunge così spesso la vittoria, sono, in ordine cronologico di utilizzo, Fulvia, Flavia e Stratos, tutti modelli griffati Lancia. In una fase avanzata della sua carriera, passerà alla Fiat 131 Abarth. In seguito al ritiro ufficiale dal Mondiale, si limiterà a sporadiche partecipazioni a sfide in terra africana, come la Dakar o il Rally dei Faraoni.
Munari è stato il primo italiano a conquistare una Coppa Internazionale “FIA” per Piloti di specialità. Ma, soprattutto, è stato il primo italiano a far entrare il rally nel cuore delle masse del Bel Paese. D’altra parte, non sarà un caso che proprio l’altro campione veneto Miky Biason arriverà ad dichiarare che “l’Italia s’innamorò del rally grazie a Munari”.
Per dirla con tutta completezza, Munari è anche uno di quei piloti italiani di razza che, nel contesto di competizioni internazionali, facendo corpo con una automobile assolutamente italiana, portano sul podio l’Italia prima di sé stessi.
E’ quanto accaduto, prima di lui, con Tazio Nuvolari, al quale spettò di domare in pista l’esuberante potenza di Ferrari, Alfa Romeo e Maserati, tutti marchi orgogliosamente italiani. Bolidi coi quali egli vide agitarsi la bandiera a scacchi più volte e per primo. Miti su quattro ruote grazie ai quali egli potette gioire per sé medesimo, certo, ma, soprattutto, per il tricolore stemmato del Regno d’Italia, issato in segno di vittoria tra le bandiere di altre nazioni, al suono memorabile dell’inno di Mameli. Ed è quanto accadrà, dopo di lui, con Miki Biason, il quale inanellerà vittorie su vittorie, sempre alla guida di una italianissima Lancia.
Munari è anche uno di quei campioni che campioni lo sono per diritto di sangue, poiché, in lui, oltre al pilota eccezionale, c’era il galantuomo d’un tempo, l’uomo di quei sani princìpi morali che non avevano bisogno di un’occasione per mostrarsi, ma che, non di rado, sapevano riflettersi nelle circostanze.
E’ un episodio su tutti che, in proposito, chiama ancora oggi la giustizia d’un ricordo. Correva l’anno 1972 e la Lancia aveva preso la risoluzione di chiudere le linee di montaggio della Fulvia. Il modello non aveva semplicemente più mercato e produrla non conveniva più. Senonché, a metà di Gennaio, insieme al navigatore Mario Mannucci, il Drago vince la tappa di Montecarlo e proprio a bordo di una Fulvia, nella sua versione coupé. Nei giorni a seguire, alla maniera di un’onda sollevata da un improvviso, forte soffio di vento, la Lancia riceverà cinquantamila ordini di acquisto proprio della Fulvia coupé, con la conseguenza della decisione, da parte delle dirigenze dell’azienda fondata da Vincenzo Lancia, di riassumere gli operai che erano stati licenziati in tronco, poco prima, per chiusura delle catene di produzione.
Un essere, il suo, capace di creare naturalmente una speciale armonia nella stessa squadra che lo sosteneva. Come un’orchestra di prestigio che non può fare a meno neanche di uno dei musicisti che la compongono, così l’intera gara di Munari era espressione di un’armonia composita, di cui il pilota di Cavarzere era la sublimante nota finale e, insieme, lo stesso robusto spartito sul quale tecnici e meccanici al suo seguito avrebbero reso il proprio lavoro.
Costante, metodico, razionale, con maniere anche rudi, tipiche di quella terra campagnola dalla quale proveniva, tuttavia singolarmente sovraintese da un certo, ineffabile spirito aristocratico, con quel suo portamento distaccato, sicuro di sé ma sempre lontano da ogni affettazione, lasciava una durevole, gioiosa emozione vederlo aggredire ogni difficoltà di percorso con un coraggio che, a piena ragione, potrebbe essere medagliato leonino. Subdoli dossi, suoli bagnati o innevati, curve che potevano essere affrontate solo in sbandata controllata, scivolosi sterrati, asfalti malandati, discese a strapiombo, polverosi o sconnessi sentieri di montagna, non c’era prova che Munari non sfidasse con successo e, sempre, con quella spontanea classe d’audacia che lo ergeva puntualmente ad un gradino sopra.
A cercare un’analogia con colleghi della Formula 1, viene spontaneo accostare la figura di Munari a quella dell’asso brasiliano Ayrton Senna. Entrambi di spirito mite, ma carichi di grinta da vendere e con uno stile di guida naturalmente elegante, seppero elevare il ruolo del pilota a quello di modelli capaci d’incarnare l’autentico ideale che lo sport tiene per regola d’insegnare.
Ed è singolare che, dovesse gettarsi uno sguardo alla realtà odierna del rally professionistico, per quanto siano riconoscibili piloti d’indubbia levatura tecnica, non sia ancora possibile identificare un degno erede, uno che, del Drago, richiami, appunto, anche la caratura morale o che, con il medesimo tasso di intensità, riesca a cingersi di quell’aura così speciale che lo accompagnava in ogni competizione.
La stima dal basso, dal cuore di quella gente che palpitava per lui tutte le volte che lo vedeva sfrecciare, si alternava alla stima dall’alto, da parte di chi conosceva le sue doti straordinarie ed era nella posizione di poter decidere perfino delle opportunità per poterle dimostrare. Fu questo il caso del commendator Enzo Ferrari, che volle Munari alla guida di una Rossa per la 56ma Targa Florio, disputatasi nel 1972.
Da poco più di due mesi, il Drago ha superato gli ottantun anni, che trascorre in serenità a Bologna, dove vive abitualmente in compagnia della consorte Flavia. Intorno a lui, è fiorito già parecchio scritto (tra cui ben due volumi di memorie, “La Coda del Drago” e “Sandro Munari. Una vita di traverso”), come si fa con i grandi campioni che sono ancora in vita, ma che, ormai, hanno accumulato un così tale merito che non si possa evitare di attendere per dar loro gloria.
Nel 2019, Sandro Munari riceve il Collare d’Oro al Merito Sportivo, la più alta onorificenza concessa dal Comitato Olimpico Nazionale. Ma il più grande onore, per il Drago di Cavarzere, rimane quello già assodato fin dagli anni ’70 del secolo scorso, quello che dimora e per sempre dimorerà nei cuori del popolo italiano da quando il pianeta del rally fu attraversato dalla luce della sua cometa.
1 Commento
Marco
Sandro munari si meriterebbe una statua in qualche piazza, come altri grandi dello sport. E un simbolo di una grande ed irripetibile italia!