Rally sport “brutto e cattivo”: chiediamoci il perché
Nell'idea comune l'immagine del nostro sport è disastrosa e la responsabilità non è solo di chi lo vede da fuori
Succede ad ogni tragedia legata al nostro mondo ed è successo anche questa volta. I mass media si “accorgono” all’improvviso del mondo dei rally, arrivano di prepotenza a calcare la scena e l’immagine di questo sport motoristico ne esce devastata. “Sport pericoloso e senza regole”, “Gare di auto in strada e senza barriere per il pubblico”, “Costante sfida alla sorte” ed un’altra lunga sequela di luoghi comuni sono passati davanti agli occhi delle persone che si sono ritrovate a parlare di rally giusto per il tempo di una notizia.
Normale arrabbiarsi ed uscirne infastiditi, per la superficialità con cui viene affrontato un tema importante e che ci sta abbastanza a cuore e perché, in un momento così tosto, si vorrebbe solo rispetto e silenzio per le parti coinvolte in una immane tragedia.
Siamo quasi abituati a tutto questo, anche se la rabbia e l’indignazione si rinnova ogni volta ma, viene da chiedersi se sia “colpa” di chi parla di rally solo in questi momenti oppure ci siano problemi più ampi e radicati che impediscono ai rally di scrollarsi di dosso questo marchio di “sport mortale”.
Naturalmente non basta di certo un articolo per arrivare ad una soluzione ma è abbastanza palese che nel sistema rally italiano qualcosa non stia funzionando per il verso giusto ed ho voluto provare a razionalizzarne alcuni punti.
La “comfort” zone di chi racconta i rally
La ricetta è la stessa da sempre: quello che si è sempre detto per chi i rally li ha sempre seguiti. Guai a prendersi il rischio di mettere giù qualche idea in più per cercare di portare più utenti a volerne sapere di più dei rally. Programma gara, elenco iscritti, piantine delle ps, aggiornamento a fine giro, risultato finale e se ci scappa l’incidente assecondiamo quel pizzico di voyeurismo insito nel motorsport, magari specificando “equipaggio ok” per sentirci un po’ meno in colpa. Uno schema trito e ritrito che piace a chi mastica rally ma, che non ha alcun appeal per chi non ha la minima idea di come funzioni realmente un rally.
Eppure i rally sono tecnologia, tecnica, logistica, turismo e tanto tanto altro.
Ma se non siamo capaci di dare appeal ai rally noi che li raccontiamo da tempo, come può farlo chi ogni giorno si preoccupa di ricordarci solo che d’estate è bene bere molto e non uscire nelle ore più calde?
Alle persone piacciono le storie ma nessuno gliele racconta
Qui si gioca una chiave importante: nell’immagine dei rally di casa nostra mancano le persone, gli eroi, le storie. Vi siete mai chiesti perché certi piloti degli anni ’80 e ’90 ancora oggi vengano ricordati con così tanto affetto?
Non parlo di piloti del mondiale, sarebbe troppo facile. Mi riferisco a piloti di casa nostra come i Cerrato, gli Zanussi, i Tabaton e perfino a quei personaggi prestati ai rally come Faletti o Pozzetto. Non si può dimostrare fossero in grado di andare più forte dei piloti attuali o che avessero capacità diverse, mentre è sotto gli occhi di tutti che la loro carriera e le loro gesta siano rimaste nella memoria collettiva per molto più tempo.
Perché?
Perché oltre al risultato delle prove speciali c’erano le vite di queste persone, le loro storie. Quel che più appassiona le persone e che rimane impresso. Gianni Vasino, insieme a Dario Cerrato, lo aveva dimostrato al Montecarlo 1989: dove c’è una storia si può arrivare a parlare di rally a 15 milioni di persone e senza nessun incidente da spettacolarizzare.
Ed è un po’ quello che si è fatto in Estonia con Ott Tanak, uno che non brilla di certo per le capacità di raccontare se stesso, ma di cui si è arrivati ad avere un film. Ed è nei racconti che passano anche tramite i film che nascono le emozioni degli appassionati ed i sogni dei bambini, gli appassionati di domani. Gente che attira altra gente. Musica per le orecchie degli sponsor.
Insomma le storie ci sono, interessano ma, è necessario prendersi la briga di scovarle per raggiungere le persone che aiutino raccogliere le risorse per raccontarne altre e come si deve. Un sistema autoalimentato di passione ed interesse collettivo, nel buon nome di uno sport.
Quando l’interesse è solo privato soffre l’immagine collettiva
Risorse. Servono a tutti, mancano a molti, bastano a pochi e sono comunque il risultato di sforzi privati. Oggi il rally di casa nostra è un’affare tra privati, ad ogni livello e in ogni attore coinvolto. Equipaggi, team, organizzatori, noleggiatori, ecc… Ognuno con una propria dimensione ed una propria “vita”, racchiusi sotto un cappello istituzionale che più, che dirigere legifera (e spesso complica).
Il numero di gare decuplica, i chilometri si accorciano, i costi “calano”, gli iscritti triplicano (insieme alle R5 acquistate nel nostro Paese) e vissero tutti felici e contenti.
Poco importa se capire l’organizzazione dei campionati italiani è roba per scienziati. Poco incide se per sentire parlare di rally in televisione bisogna consumare i tasti del telecomando a colpi di zapping ad ore tarde o aspettare le iniziative lodevoli di altri privati impavidi come Max Rendina con il Roma Capitale raccontato al TG delle 20. Poco interessa se nessuno riconosce che si tratta di una disciplina che vive dello spettacolo delle prove speciali ma che “nasconde” il proprio fascino nelle caratteristiche delle gare di regolarità
Gli iscritti ci sono e se a guardarli non c’è nessuno va bene lo stesso. Anzi, meno casino a gestire il pubblico in prova speciale.
L’asset dirigenziale non guida il privato verso una visione più ampia dove a goderne è l’intero movimento. Si adegua alle sue esigenze per paura di vederlo scappare, in un costante regime di sopravvivenza. E dove a malapena si sopravvive difficilmente arriva qualcuno che all’improvviso investe.
Poi il tempo per raccontarli i rally uno lo troverebbe anche.
Lo “zoccolo duro” poco avvezzo al cambiamento
Bisogna essere onesti nel riconoscere che niente cambia perché cambiare non è facile. Senza tornare a parlare di nostalgici e puristi (altro argomento tritato a sufficienza), va riconosciuto che i tentativi di abbracciare un pubblico più ampio si stanno facendo, con eventi di grande coinvolgimento come RallyLegend e non solo. Il traino viene ultimamente dal WRC, “costretto” a sbarcare in circuito dal Covid a Monza a dicembre. Esperimento replicato poi in agosto ad Ypres.
E mentre si son perse giornate a chiedersi se fosse più bello o più brutto, in pochi si sono accorti che in quelle situazioni di “compromesso” nasce un prodotto. Una tribuna coperta che facilmente accoglie famiglie. Un pubblico pagante. Una diretta TV facile da organizzare e meno costosa da distribuire. Indotto ed occasione di coinvolgere ed incontrare un pubblico più ampio, con lo “scotto” da pagare di risultare leggermente più costruiti ed artefatti rispetto ad un passaggio in mezzo ai campi.
Certo, non è “vero rally” la serie di “ciambelle” realizzata da Neuville una volta tagliato il traguardo in Belgio ma, i video del pubblico sulle tribune di SPA hanno fatto il giro del mondo più e più volte e di gente che non dà l’impressione di masticare prove speciali ogni weekend se ne vede inquadrata. L’alternativa sono le prove spettacolo nei piazzali dei centri commerciali di sabato pomeriggio. Che valga la pena di giocarsi un po’ di purezza?
Una questione di immagine che non può più sottovalutare il reale valore (anche economico) che risiede nella reputazione. Una percezione che contribuisce a definire l’immagine di un prodotto e che può essere definita e migliorata giorno dopo giorno da chi quel prodotto lo “offre”. Come?
Con la narrazione. Il racconto di storie più interessanti e coinvolgenti e segnanti che i rally hanno nel proprio dna e per cui non serve alcun incidente perché escano fuori.
2 Comments
UGO ROBBIANO
Ciao. Vi seguo da alcuni mesi. Non commento quasi mai nulla, perchè raramente ne vale la pena.
A voi volevo lasciare un sincero; COMPLIMENTI.
Complimenti, fate degli articoli veri che sono molto interesanti.
Alex Alessandrini
Grazie mille!