Nel nome del padre
Di padre in figlio, di polemica in polemica
Quella dei figli d’arte è una storia vecchia almeno quanto il mondo e nel mondo dei rally sono parecchi i cognomi che evocano ricordi negli ultimi anni. Rovanpera e Solberg sono sicuramente i casi più eclatanti ma, anche tra le mura di casa nostra stiamo assistendo a seconde generazioni rallystiche coi vari Battistolli, Oldrati, Ciuffi, ecc…
Ognuno progetta il proprio percorso, in modo più o meno sensato a seconda delle disponibilità, sapendo fin dal primo momento che il cognome sul finestrino avrà un peso rilevante sia nel bene che nel male. Sì perché la strada che parte da figlio d’arte e finisce a figlio di papà è praticamente inevitabile, indipendentemente dagli obiettivi, dal percorso e dai traguardi. Una pseudogogna in salsa social, portata avanti con costanza e nella speranza che i risultati non arrivino mai per non correre il rischio di essere smentiti.
Ci passa ogni giorno un tale Kalle che, a poco più di ventanni, siede con merito su una WRC dopo aver sbancato a destra e a manca nelle categorie minori e la stessa sorte tocca ad Oliver che, con un anno in meno, ha portato a casa le prime vittorie internazionali strabiliando tutti.
Figuriamoci se non ci debbano passare i ragazzi di casa nostra, la patria internazionale della polemica rallystica, dove tutti avrebbero la ricetta per un nuovo campione del mondo tricolore ma nessuno gli consente di metterla in pratica.
Vietato pensare di divertirsi. Impensabile volersi prendere il tempo (avendone le possibilità) di crescere compatibilmente a quello che la vita “vera” fuori dai rally richiede. Incomprensibile cercare di alleggerire le pressioni che “essere il figlio di” naturalmente comporta. Certo, orbitare attorno a “progetti” che aspirano a creare una “nazionale di rallysti azzurri” ma che di nazionale ha solo i colori degli adesivi, non aiuta ma di certo non rende tutto lecito.
E allora bilancia sempre pronta a soppesare ogni dichiarazione di fine prova speciale, lente d’ingrandimento sulle classifiche per sganciare quel “io ve lo avevo detto” che era in canna prima di cominciare e se ci si può mettere quel misto di sarcasmo/cattiveria, con qualche spruzzata di politica, è ancora meglio. Perché se hai scelto di salire su una macchina da rally e porti quel cognome lì, o vinci il mondiale o era meglio se stavi a casa.
Eppure un padre lo abbiamo tutti, io stesso lo sono, e sfido chiunque a trovarne uno che non avrebbe piacere nel vedere il proprio figlio ripercorrere le stesse orme. Una questione di sangue e di passione, qualcosa che ha più a che fare con le viscere che con lo sport. Una dinamica dove qualunque parere esterno non può che apparire fuori luogo, indipendentemente dai risultati sportivi.
Perché padre e figlio sono comunque due persone diverse e se nella “valutazione” di uno c’è anche solo il minimo riflesso dell’altro, è quasi inevitabile che si finisca a dire una cazzata. Un concetto talmente banale che a spiegarlo mi sento quasi in imbarazzo. Magari i risultati non arriveranno mai, il figlio risulterà veramente una pippa e qualche derisione alla fine risulterà anche meritata.
Ma questa fine bisogna aspettarla perché è vero che le parole non costano niente ma, hanno comunque un certo peso. Soprattutto se le si rivolgono a ragazzi di 23-25 anni che hanno tutto il diritto di scegliere come crearsi il proprio futuro, che sia per lavoro o per divertimento, con la fortuna di poterselo permettere anche grazie alla persone che più li ama. Persone, affetti, famiglia.
Le sole cose di cui sarebbe bene ricordarsi ogni volta che imbracciamo la tastiera per condividere (e un po’ vomitare) l’ennesima verità rallystica in salsa tricolore.